La figura del mobility manager in Italia. Il caso di Arpa Piemonte
Dal 16 al 22 settembre si svolgerà la Settimana della mobilità sostenibile. Approfondiamo alcuni aspetti meno noti di questo tema con Domenico De Leonardis mobility manager (o responsabile della mobilità) di Arpa Piemonte.
Quando è stata istituita la figura del mobility manager in Italia?
Il mobility manager nacque sulla spinta dell'emergenza smog che si ebbe nelle principali città italiane sul finire degli anni ‘90. Il ministro dell'epoca, Ronchi, stabilì nel 1998 che ogni organizzazione con più di 800 dipendenti, o con unità operative superiori ai 300 dipendenti,dovesse individuare un responsabile della mobilità aziendale. Il decreto introduceva anche la figura del mobility manager d’area che avrebbe avuto un ruolo − presso i comuni, le provincie e le regioni − di promozione, di formazione e di coordinamento tra le aziende e amministrazioni pubbliche.
Qual era l’obiettivo?
L'idea di fondo di chi introdusse questa figura, sulla base di esperienze estere, era di agire sul fronte del governo della domanda di mobilità senza intervenire sul lato dell'offerta (come per esempio la costruzione di nuove strade o la realizzazione di nuove linee di trasporto pubblico). Gli spostamenti casa-lavoro (così come quelli casa-studio) sono cosiddetti sistematici perché sono programmabili e costanti per gran parte dell'anno quindi hanno buona possibilità di trovare soluzioni diverse dall'auto privata. L'obiettivo del mobility manager è quindi favorire il cosiddetto "split modale": ridurre la percentuale d'uso dell'auto in favore di altre soluzioni.
In cosa consiste esattamente il compito del mobility manager d’azienda?
Il mobility manager è l'interfaccia tra i vertici dell'azienda e i lavoratori, deve analizzare la mobilità di questi ultimi redigendo un piano degli spostamenti casa-lavoro, programmando di conseguenza gli interventi, cercando di disincentivare l'uso del mezzo privato del singolo dipendente in favore di soluzioni di trasporto collettivo o dell'uso della bicicletta o di forme di condivisione dei mezzi di trasporto (carsharing e carpooling).
Ha avuto successo questa iniziativa del legislatore?
Questa figura ha avuto, negli anni successivi alla sua introduzione, una vita travagliata tra l'obbligo di legge e nessun incentivo dato alle aziende private e agli enti pubblici. Il traffico e l'inquinamento infatti sono classiche esternalità negative che è difficile imputare a chi le produce anche se i suoi effetti ambientali, sociali ed economici sono ormai noti anche all'opinione pubblica. È il settore dove è necessario un ruolo del soggetto pubblico di coordinamento, di stimolo, di prevenzione. Il decreto Ronchi ha fallito soprattutto nel tentativo di coordinare queste figure a livello urbano con i cosiddetti mobility manager d’area, figure praticamente inesistenti o di breve durata. Questo anello debole si ripercuote sulla capacità delle singole organizzazioni di mettere in campo iniziative con gli altri operatori economici.
E all’estero qual è la situazione?
Per fare un paragone, nella vicina Francia le aziende pagano una eco-tassa sui trasporti pubblici. È una cosiddetta tassa di scopo che si paga alle regioni in virtù dell’impatto che le varie aziende determinano sul territorio spostando merci e persone. La regione ha l’obbligo di utilizzare questi fondi per potenziare il sistema di trasporto pubblico, mentre le aziende hanno un ulteriore obbligo di incentivare economicamente il trasporto collettivo presso i dipendenti. Domanda di trasporto e relativa offerta, in questo caso, si autoalimentano e i dati lo confermano: la Francia ha 496 auto ogni 1000 abitanti mentre l’Italia ne registra 621.
Qual è la diffusione sul territorio italiano di questa figura?
Tranne qualche eccezione sporadica e di breve durata, molte aziende e organizzazioni hanno inserito le loro politiche di mobility managment quando hanno scoperto il valore della cosiddetta responsabilità sociale e hanno introdotto alcuni servizi per i propri dipendenti all'interno delle politiche più ampie di welfare aziendale. È questo per esempio il caso degli incentivi all'acquisto degli abbonamenti del servizio pubblico di trasporto, la promozione del telelavoro (che evita mobilità aggiuntiva), la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Non si riscontra oggi un’inversione di tendenza?
In effetti sono in atto cambiamenti da segnalare. Come ho accennato l’offerta di soluzioni di trasporto pubblico si sta ampliando soprattutto nelle grandi città. Nuovi operatori privati e soluzioni “smart” stanno facendo crollare il mito dello spostamento in auto (e del suo possesso). Questa tendenza è stata colta dal legislatore di recente e sono da segnalare due novità. La prima è il riconoscimento dell’infortunio in itinere in bicicletta, un ostacolo sostanziale nella promozione da parte del datore di lavoro (e di conseguenza del mobility manager che ne deve eseguire il mandato) di politiche “bike friendly” fino ad oggi in contrasto con gli aspetti di tutela e sicurezza del lavoratore. La seconda novità è la riscoperta della figura del mobility manager tant'è che il nuovo collegato ambientale prevede l'introduzione di essa all'interno degli istituti scolastici.
Dopo questa panoramica parliamo ora del suo caso. Quando è stato nominato?
La mia nomina risale al 2011. Le prime azioni di mobility managment sono state però realizzate già nel 2008 da parte del collega Massimo Boasso. L’introduzione di questa figura, almeno qui in Piemonte, è stata favorita da una misura regionale di cofinanziamento dei titoli di trasporto pubblico. L’ente o azienda che voleva godere di questo contributo doveva nominare un responsabile della mobilità aziendale e redigere un primo piano spostamenti casa-lavoro.
In cosa consiste il suo incarico?
Mi occupo di favorire la mobilità dei colleghi tra casa e lavoro cercando di disincentivare l’uso del mezzo privato. L’azione più concreta, resa possibile dalla sensibilità dell’amministrazione, è il cofinanziamento degli abbonamenti annuali per i mezzi pubblici. Altre misure consistono nel favorire la mobilità ciclabile rimuovendo quegli ostacoli interni all’uso della bicicletta, ostacoli ovviamente più culturali che fisici. Ci sono poi delle competenze come quelle relative al telelavoro che investono il lavoro di altri colleghi. Dal 2015 gestisco anche il parco auto aziendale.
Quali sono le attività che è riuscito a intraprendere?
Il cofinanziamento coinvolge annualmente una platea di beneficiari che è attorno alle 110 persone. Gran parte di questi colleghi lavorano a Torino presso la sede centrale dell’Agenzia dove si raggiunge la quota del 22% di dipendenti che utilizzano i mezzi pubblici. Per chi non ha mai usufruito del mezzo pubblico il finanziamento copre il 60% del costo dell’abbonamento per il primo anno, per poi ridurre gradualmente il contributo. Inoltre, chi si reca a riunioni di lavoro può richiedere un biglietto del servizio pubblico.
Sono state organizzate iniziative dedicate ad incentivare l’uso della bicicletta?
È stato realizzato un parcheggio custodito con telecamere e chiave con 40 posti per biciclette nella sede di Torino (che peraltro da circa un anno è servita anche dal bikesharing della Città). Ciclicamente sono stati organizzati incontri con alcune ciclofficine locali per mantenere in ordine le proprie biciclette. Abbiamo messo a disposizione un kit per le riparazioni di emergenza con il contributo di un collega in grado di intervenire per piccoli problemi meccanici.
In alcuni casi, come per la sede di Grugliasco abbiamo avuto incontri con esperti incaricati dalla Città Metropolitana di Torino per superare alcune situazioni critiche di attraversamento e raggiungimento della sede.
Ultimamente Arpa sta partecipando alle varie iniziative nazionali di promozione del “bike to work”. Quest’anno per esempio aderiremo al Love to Ride organizzato da FIAB. E l’orgoglio dei ciclisti in questi casi si accende perché per dei tecnici dell’ambiente la missione professionale incontra il comportamento responsabile individuale di cittadino.
Ha un sogno nel cassetto?
Mi piacerebbe non sentire più quella frase dei colleghi “tra un po’ iniziano le scuole e dovrò dire addio alla bici” ma in questo caso più che a lavorare sulla flessibilità degli orari di ingresso serve un salto di qualità e ripensare alcuni servizi cittadini.